I profughi albanesi si vienivano a trovare, nel Mezzogiorno d'Italia, in un contesto storico-sociale molto diverso da quello che avevano lasciato nel loro paese, dove Scanderbek, come scrive il Fan Noli, aveva unito tutta la nazione sotto una sola bandiera ed un solo capo e, per di più, aveva liberato il suo popolo "non solo dall'oppressore straniero, ma anche dai piccoli oppressori locali, che per i loro interessi personali ne suggevano il sangue e fomentavano conflitti fratricidi. La distribuzione del sistema feudale (in Albania) era, per quei tempi, una riforma così radicale che Giovanni Musachio accusa Scanderberk di essere uno spogliatore ed un usurpatore". Queste popolazioni albanesi, in Calabria, in Puglia ed in Sicilia, venivano a trovarsi nella condizione di dovere fare i conti con piccoli e grandi signori locali, laici ed ecciesiastici, alla cui pietà erano costrette a ricorrere per avere un tetto e terre da lavorare.
In un certo senso, le condizioni economiche del Mezzogiorno, anche se disastrose, erano favorevoli agli immigrati, per la stragrande maggioranza contadini, in quanto i feudatari avevano estremo bisogno di manodopera da impiegare nei lavori dei campi, da cui i contadini emigravano per stabilirsi nelle città od in grossi borghi, dove i lavoratori si raggruppavano in maestranze e si governavano con statuti propri.
V'è, poi, da aggiungere che, per le frequenti pestilenze, le carestie ed i terremoti, molti casali sono disabitati ed in rovina; nel solo territorio del feudo di S. Adriano, i casali di Scifo e Poggio sono vuoti; un esiguo numero di "villani" e nello stesso casale di S. Demetrio, sorto nelle immediate adiacenze del monastero; vuoto e in abbandono, semidistrutto dal terremoto, è il casale di S. Giorgio - l'antico "Sancto Jorio" delta carta ruggeriana -; tutti questi casali vengono ripopolati con gli Albanesi, i quali giungevano in un momento veramente opportuno, per chè erano utilissimi a coprire il vuoto di manodopera, apertosi in molti feudi ed i signori, laici ed ecclesiastici, li accoglievano benevolmente nelle loro terre soprattutto perchè era questo il loro interesse.
Questi albanesi, costituendo un provvidenziale serbatoio di manodopera, oggettivamente, costretti a mettersi al servizio dei feudatari, contribuivano a dare un certo respiro al sistema feudale che, pur essendo molto forte, era però molto odiato; tanto odiato che, qua e 1à., scoppiavano sanguinosi conflitti tra popolani e feudatari.
Non minore era l'astio delle Università contro gli stessi feudatari, perchè erano esposte alle rapaci spoliazioni dei signori, tartassate dal fisco ed escluse dal parlamento; spesso esse si rivolgevano al re perchè fossero condotte o serbate nel dominio regio, più benevole e più largo, o perchè il re riconoscesse grazie, usi o
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privilegi antichi. L'Universita di Castelvetere, per esempio, nel 1499, supplicava il re a tenerla in demanio, perchè i cittadini, per essere venuti in potere dei baroni, "so stati disfacti e reducti in povertà"; Japoco Carafa ed i figli spogliavano i cittadini delle loro case e delle loro terre, rubavano e asassinavano ed i cittadini pregavano il re di concedere loro qualche franchigia "actento la disfactione grandissima the son circa anni XXLII che son stati cursi e robati the alloro non è restata cosa alcuna, nisi pedes et dentes".
In tale contesto storico-sociale, gli immigrati albanesi, che, per necessita obbiettiva, avevano dovuto chiedere asilo ai baroni, laici o ecclesiastici, si venivano a trovare in una situazione di estrema precarietà.; le Universitates ed i popolani, nella convinzione che erano essi fedeli sudditi dei feudatari, li vedevano di mal occhio e non tralasciavano occasione per invocare, come vedremo a proposito dell'Università di Acri, severe misure contro di loro; nascevano, così, nell'opinione pubblica dicerie, detti, proverbi, the additavano negli Albanesi dei nemici da abbattere, come quello famoso "se incontri un lupo ed un albanese, spara prima all'albanese e poi al lupo".
Nè il clero di rito latino e gli stessi vescovi, con in testa quelli di Cosenza, Anglona-Tursi e Rossano, erano da meno nell'alimentare, poco cristianamente, la zizzania; ciò perchè gli Albanesi si rifiutavano di lasciare il rito greco-bizantino per abbracciare quello latino; la questione non era religiosa se non in apparenza; in effetti, gli ordinari diocesani si ingerivano pesantemente nella vita della comunità albanese per eliminare il rito greco col preciso intento di non falsi sfuggire gli emolumenti" derivanti dalle decime, che gli Albanesi, di rito greco, non erano tenuti a corrispondere; da qui l'interesse dei vescovi latini nel distruggere il rito greco nelle comunità albanesi ed il contrario interesse di queste ultime a conservare il proprio rito, sia per non sottoporsi ad un altro balzello, sia per evitare un altro padrone, la cui manifesta esosità ed intolleranza non facevano sperare nulla di buono.
Nel corso dei secoli XV e XVI, i capitoli o capitolazioni, le grazie ed i privilegi, che si possono raggruppare sotto il nome di statuti, formano il nucleo essenziale dell'ordinamento amministrativo.
Le capitolazioni, che intercorsero con i vari baroni, particolarmente con l'archimandrita del monastero di S. Adriano e successivamente con gli abati commendatari dello stesso monastero basiliano, compensano, in parte, il vuoto che la storia presenta sulle condizioni degli Albanesi quando vennero a cercare rifugio in Italia.
Forse non è lontano dal vero il Marafioti, il quale, Delle sue Croniche et Antichità di Calabria, nè traccia un quadro sommario, in cui evidenzia condizioni di vita estremamente precarie, quasi si trattasse di un popolo nomade: "eglino mai abitano in paese piano, ma solo dentro le montagne, e boschi, e non fabbricano case, acciò non siano soggetti a Baroni, Duchi, Principi, e altri Signori. E se per sorte nel territorio dove abitano il Signore volesse alquanto lor maltrattare, eglino donano fuoco alli tuguri e vanno ad abitare nel territorio d'altro Signore".
Si tratta di una popolazione di contadini e di pastori, in cui non vi sono distinzioni di classe: "tutti esercitano l'arte di coltivare le campagne - prosegue il Marafioti - e avere cura dei greggi e armenti, e tra loro non si trova huomo nobile, ma tutti fanno vita uguale; niuno impara lettere, eccetto colui che vuole farsi caloiero, e alcun altro molto raro".
Ed effettivamente, analizzando le varie capitolazioni, si ha la netta sensazione
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di trovarsi di fronte ad un popolo contadino che, costretto a ricorrere alla altrui pietà, si adatta ad una aspra condizione di vita, per cui come scrive Giuseppe Mazziotti, "non istruzione, non industria nè commercio; ma come coloni di questo o quel feudatario laico o ecclesiastico erano trattati peggio dei servi della gleba. Appena a taluni di essi era possibile di ascendere al sacerdozio... Venivano, dopo la consacrazione, mandati nei loro rispettivi paesi ad esercitare in rito greco il culto dei loro avi. Fu questa l'unica occasione propizia per la rigenerazione morale e civile degli Albanesi di Calabria e Basilicata".
Alcuni scrittori, facendo confusione tra il popolo albanese in quanto tale ed alcuni elementi emigrati con esso, sostengono che ai profughi furono concessi vari privilegi; il che non e storicamente esatto, perchè privilegi e riconoscimenti di nobiltà, dai potenti del tempo, furono dati a singole persone o semmai a singole famiglie, che non vivevano nelle comunità di albanesi, in Calabria o in Basilicata o in Sicilia, ma si erano stabiliti nelle città, principalmente a Napoli o a Roma, e non avevano legame alcuno con le varie comunità di contadini e pastori, che tiravano la vita alla men peggio al servizio dei feudatari, parificati in tutto alle masse di diseredati, che popolavano il Sud della Penisola.
L 'unico documento, che è veramente un titolo di cristiana pietà che rendeva meno acerba la sorte degli infelici esuli, è costituito dalle "capitolazioni" intercorse tra la comunità albanese di S. Demetrio e l'archimandrita di S. Adriano, il 3 novembre 1471; da esso si evidenzia chiaramente che gli Albanesi non vengono accolti come vassalli nè a titolo di vassallaggio, ma, invece, sotto il profilo di una tutela gratuita e tutta paterna.
"Dimitri de Malacasa, Petrus Brescia, Theodorus Lopes et nonnulli alli Albanenses" si presentavano all'abate di S. Adriano, Paolo Greco "de Terranova" ed agli altri monaci, fra Iacopo de Pulicastrio d' Acrio, fra Basilio, fra Nicodemo, fra Attanasio e fra Andrea, e chiedono di essere accolti nelle terre del monastero: "ipsi Albanenses, una voce et pari voto asseruerunt: quod propter sinistram et infelicem victoriam Turcorum expoliati et exules sunt a patrlis mansionibus, et incolatus corum propriae Nationis,... petierunt Archimadritam ut velle vitam et incolatum eorum facere in casali, quod dicitur Sancti Dimitri de tenimento ut dicitur dicti monasterli S. Adriani, ut liceat eisdem cum aliquibus immunitatibus, gratlis et aequitatibus necessarlis in eorum vita ipsos amplectari et caros haberi".
L'archimandrita ed i monaci li accolsero come figli "ne fata infelices devorentur dictos Albanenses", e acconsentirono che si stabilissero nel casale di S. Demetrio e che, nel detto casale e nel suo territorio, potessero seminate, arare, coltivare le terre e pascolare "die noctuque", "sine aliqua contradictione, molestia et cavillatione quacunque".
Con lo stesso documento si stabilisce che gli Albanesi corrisponderanno, ogni anno, nella festa di S. Adriano (26 agosto), un tarì "pro quolibet foculario" e la decima "omnibus victualibus quae pervenerint ex terris dicti monasterli"; per ogni tomolata di vigna cinque grani all'anno; per gli orti nulla era dovuto ("quod possint facere hortos cum herbis comestibilibus sine aliqua solutione"); per due anni erano esonerati dal pagamento della decima sul terreni, che essi avrebbero disboscato o dissodato, rendendoli, così, idonei alla coltivazione; il prete era esentato da qualsiasi pagamento.
La "capitolazione" in oggetto è importante per diversi motivi; intanto, essa è il più antico documento relativo agli Albanesi di Calabria; rivela che, nella badìa niliana, non era del tutto scomparso 1o spirito del basilianesimo, il quale ricevette certamente nuovo impulso dall'arrivo della gente albanese, per il fatto che questa praticava 1o stesso rito greco-bizantino, praticato dai monaci, e, quindi, il monastero trovava una ragione in più per continuare ad esistere non solo come proprietario di
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un grosso patrimonio fondiario, ma soprattutto come ente religioso, che esercitava la sua. giurisdizione su una popolazione simile per pratica di culto.
Ma il feudalesimo imperversava e, ben presto, gli Albanesi furono ridotti a provare i rigori di una condizione miserevole; nè sono testimonianza le capitolazioni, imposte agli Albanesi dall'abate commendatario, don Indaco Siscara, nel 1603.
Con gli abati commendatari le terre del monastero diventano oggetto di prebende beneficiarie, ad iniziare dal secolo XVI; nel corso del '500, essi furono: don Giovanni Pietro Siscar, don Marcantonio Siscar ed il cardinale Rodolfo Pio di Carpi; nel corso del '600, don Indaco Siscar, il cardinale Scipione Borghese ed il vescovo Francesco Maria Brancaccio; nel corso del '700, il cardinale Nicola Giudice (che affittò la commenda a Giuseppe Andreotti), il cardinale Antonio Ruffo, il cardinale Giuseppe Spinelli e Ignazio Boncompagni Ludovisi, col quale si chiude la serie degli abati commendatari.
Questi non governavano il monastero di persona, ma per mezzo di procuratori, i quali provvedevano alla gestione dei beni ed al mantenimento dei rapporti con le popolazioni infeudate; gli stessi monaci ricevevano il necessario per il sostentamento ed erano esclusi da qualsivoglia ingerenza nella amministrazione del complesso fondiario; ciò durò fino al 1743, epoca in cui, in virtù della bolla del pontefice Benedetto XlV del 23 settembre dello stesso anno, l'amministratore dei beni ritornò alla comunità monastica ed al commendatario pro-tempore venne assegnata una rendita netta annua di duemila ducati napoletani, da corrispondersi in due rate semestrali.
Con gli abati commendarari, del tutto estranei alla vita locale e interessati soltanto - com'era, del resto, nella logica della commenda - alla percezione delle rendite, le popolazioni albanesi di S. Cosmo, Macchia e S. Demetrio incorninciarono ad esperimentare le durezze del sistema feudale che, per quasi tutto il secolo XVI, si manifestò abbastanza blando nel senso che furono mantenuti in vita i patti, precedentemente stipulati con l'archimandrita, già di per sè molto favorevoli alle popolazioni immigrate.
A partite, però, dal secolo XVLI, con don Indaco Siscar, le popolazioni albanesi sono costrette a subire un più pesante processo di infeudazione e, quindi, a dover conoscere limitazioni nella coltivazione delle terre, più esosi balzelli da corrispondere al feudatario ed una più minuta e puntigliosa regolamentazione dei rapporti col "sig. Abate... barone e padrone o suoi agenti o ministri". Ciò naturalmente non per puro e semplice dispetto nei confronti delle popolazioni albanesi, ma era, invece, la conseguenza di quel processo di rifeudalizzazione, sopportata da tutto il Mezzogiorno ad iniziare dal secolo XVLII perchè "l'espansione del dorninio feudale nelle province (intesa non soltanto come riduzione dell'area "demaniale", ma soprattutto come aumento dei poteri della nobiltà nei confronti dei vassalli, più largo esercizio di prerogative feudali, diroccamento dell'apparato statale) non fu soltanto una conquista di fatto del baronaggio, ma fu anche il frutto di una scelta politica della monarchia, secondo la quale l'ampliamento delle prerogative feudali doveva essere il mezzo più efficace per mantenere la stabilità politica nei rapporti tra Napoli e la Spagna ed ottenere i necessari aiuti finanziari e militari".
Per più di un secolo, le popolazioni albanesi avevano lavorato le terre del monastero senza essere molestate, osservando i patti stipulati con l'abate Paolo; le avevano rese fertili, operando disboscamenti e dissodamenti di terreni boscosi e cespugliosi, avevano impiantato vigneti, uliveti, ficheti, gelseti per alimentare il baco da seta; con gli inizi del '600, l'abate-barone muta radicalmente orientamento e, con un atto di violenza, annulla i patti precedenti e impone una nuova convenzione, molto esosa e vessatoria.
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Don Indaco Siscara, con la convenzione dell'11 ottobre 1603, impone agli Albanesi di non potere coltivare altre terre oltre quelle del monastero e per le terre coltivate "extra lo territorio della sua Abbadia, in S. Mauro ed altri Comuni", il pagamenoo di una ammenda di 400 ducati, restringe notevomente altri diritti, come la vendita di "case, vigne, horti, celsi ed altri alberi fruttuosi"; obbliga gli Albanesi di "annettare le sta1le dell'Abbadial Corte dello Monistero di S. Adriano ogni anno avanti la festa di S. Adriano"; onere, quest'ultimo, estremamente umiliante.
Nel 1628, gli Albaesi ricorrono al cardinale Borghese, il quale nel frattempo, era diventato abate commendatario di S. Adriano, il cui agente, don Pietro Magrì, dopo avere "considerato con attenzione et informazione il contenuto della supplica presentata al Cardinale Borghese", apporta alcune modifiche alle precedenti convenzioni, imposte dal Siscara, "per mantenere l' Abbadia di S. Adriano nel giusto e relevare li vassalli di essa dall'aggravi facti loro".
Dette modifiche erano, in realtà, lievi e non giovarono molto alle comunità albanesi, le quali non si facevano sfuggire occasione per ottenere un sempre migliore trattamento da parte del feudatario e per conquistare ovviamente migliori condizioni di vita; si veniva, cosi, spontaneamente formando un vasto fronte antifeudale il cui obbiettivo immediato era quello di strappare quanto più si poteva di terre in concessione, di usi su boschi, chiuse e difese, ed in effetti, i cittadini di S. Demetrio dallo stesso don Pietro Magrì ottengono in concessione, con l'obbligo di un'annua prestazione, delle terre vicine all'abitato; si tratta esattamente di "un loco boscoso detto la Difesa... quale è inutile et infruttuoso, boscoso, spinoso, non atto a coltura, nè a rendere altra entrata alla Badìa, per il che avendosi avuto trattar molti e molti anni con li Cittadini di detto Casale per goderla per Difesa di loro bovi et animali... e per ogni altro loro bisogno concernente il medesimo mestiere,". La concessione è fatta dietro corresponsione annua di venti tomoli di grano "alla mesura napoletana"; essa è perpetua e consiste oltre che nel pascolare, nel "cogliere gliande d'alcuni alberi di cerze suvari et illici" e nel taglio di "ligname che loro serva per l'uso di loro massarie".
La Difesa doveva rimanere chiusa dal 15 aprile di ogni anno fino alla vigilia di Natale; per ogni animale vaccino che sarebbe stato sorpreso a pascolare la pena era stabilita in due carlini; in quattro tornesi per ogni animale minuto; metà della pena andava all' Abbadia e metà all'Università, cinque grani al castellano "tanto si sono più animali quanto si è uno".
Sulla "difesa" denominata "S. Angelo", le Università di S. Cosmo, Macchia e S. Demetrio, sorce nel territorio della Badìa, avevano "il jusso per tutti i mesi dell'anno di poter allegnare... a legno morto di ogni specie cascato a terra; e cascando qualche albero de' medesimi, anche hanno la facoltà... di potersene servire per loro proprio uso, nella maniera che li pare, e piace, però mediante il permesso e licenza dell'Illustre Barone, o Ministri di esso, per potersi diligenziare se l'albero sia veramente morto, o tagliato data opera, tantoche ritrovando persona che fa detto 1egname senza licenza del detto Barone, incorra alla pena di ducati sei, con essere preferito il primo occupante".
Avevano, inoltre, il diritto di pascolo, salvo nel periodo 1° ottobre - 24 dicembre, durante il quale, per gli animali sorpresi a pascolare abusivamente si doveva pagare la pena di ducati sei.
Per le "terre aratorie appartenenti al corpo di detta Difesa", la Badìa esigeva il terratico, consistence in "un tumolo di vettuvaglia per ogni tumolata di terra, con l'obbligo di conduttarle nel luogo, che destinerà il Procuratore o Erario loco Feudi". L'abate-barone aveva la "facoltà" o "il jusso" di scegliere i guardiani per la custodia della "Difesa", "con l'autorità di poter carcerare tutte quelle persone, che nella medesima Difesa danneggiano, e così prendere ad ognuno con qualsivoglia sorte di
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bestiami e portarli nelle carceri Baronali di questa terra, ed a quelli esiggere le pene ed emolumenti soliti".
Naturalmente gli Albanesi non accettavano di buon grado tutte queste restrizioni e cercavano di ovviarvi come meglio potevano e come - soprattutto - consentivano le circostanze.
Quale fosse il loro stato d'animo e quali fossero i sentimenti nei confronti dell'abate-barone emergono chiaramente dalla istanza, che i cittadini di Macchia e di S. Demetrio indirizzarono al Cardinale Brancaccio, nel 1644, allorchè questi fu investito del titolo di abate commendatario di S. Adriano.
"Le Università delli Casali di S. Demetrio e Macchia, oratori e vassalli di V.E. e dell'abbadia di S. Adriano, - era detto nell'istanza - umilmente l'espongono come vengono molestati e aggravati dalli presenti Affittuarj et anco strapazzati sopra ogni e qualunque cosa, ad ogni loro capriccio e volontà; e perchè, Eccellentissimo Signore, nel tempo che le dette Università si posero sotto il patrocinio e dominio dell'Abbadia di S. Adriano, per begnità et anche per convenzione pattuita espressamente con le dette Università da' Signori Abbati di detta Abbadia vennero ad alcuni capituli, 1i quali per alcun tempo li furono osservati e da poi per trascuraggine delle dette Università, sin come anco per non poter resistere alla forza e violenza fattali da Mons. D. Indico Siscara, già Abbate di detta Abbadia, furono detti capituli derelitti e posti in oblivione, ma in cambio d'essi con violenza, prigionia, strapazze e molti travagli fatti da detto Monsignore alle dette Università gli convenne abbandonare detti capituli e venire a nuove convenzioni conforme al capriccio di detto Monsignore.
Per il che sentendosi l'oratori molto aggravati e patita tal violenza, danno ed esterminio pubblico sino al presente, essendo redotti poverissimi che in alcun modo non possono più vivere, essendo in tutti i modi angariati e molestati, ricorrono all'infinita benignità e demenza di V.E. come Barone, Padrone e Protettore dell'oratori, acciò voglia degnarsi primo di confirmarli li suoi primi capituli, come giusti, veri e reali, e annullari li secundi; e secondo ordinare espressamente all'Affittuarj, che desistino di molestarli et aggravarli e trattarli in tutto e per tutto conforme alli detti primi capituli... tanto più che di quel tempo l'Abbadia era tenue e di poca rendita per esser pochi l'habitanti di detti Casali, ma al presente sono molto più, et in conseguenza è molto più la rendita che non era prima, che il tutto to riceveranno per grazia e per giustizia da V.E. quam Deus".
Dal documento, inviato al cardinale Brancaccio, si evidenzia chiaramente un fatto incontrovertibile e, cioè, che gli Albanesi ritenevano ingiuste le restrizioni feudali nei loro confronti perchè essi, uomini liberi, si erano posti "per benignità" e "per convenzione" sotto il patrocinio dell'archimandrita di S. Adriano. Essi, solo per la "violenza, prigionia, strapazze e molti travagli", erano stati costretti ad accettare, come male peggiore e per uscire da una situazione insostenibile, le convenzioni, imposte dal Siscara.
I1 ripristino delle pattuizioni del 1471 era ritenuto un atto di giustizia riparatrice, soprattutto perchè erano state le comunità albanesi che, col loro diuturno lavoro, avevano reso fertili i terreni della Badìa, li avevano ripopolati e, per conseguenza, avevano aumentato le rendite sia a loro beneficio che a beneficio del feudatario ("et in conseguenza e molto più la rendita che non era prima").
Ed erano nel giusto gli Albanesi quando facevano queste affermazioni. Anche, qualche secolo dopo, Michele Bellusci, nella "risposta di Filalete", ribadiva, per altri motivi, gli stessi concetti. "Lo stabilimento delle colonie albanesi nei nostri Regni - scriveva il Bellusci - non e di tanto poco conto, che non abbia meritaco tutta la considerazione del Governo. La cultura, che gli Albanesi introdussero nei luoghi, che vennero ad abitare, e che allora trovarono sterili deserti, ed orridi boschi, che servivano di nascondigli ai lupi, ed alle fiere, e li progressi, che colle loro mani callose promossero dell'agricoltura e della pastorizia, sono una prova bastevole del molto vantaggio,
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che hanno, recato ai latini, che li aveano accolti. La popolazione - continuava il Bellusci - cogli avanzi della quale va sempre connessa proporzionatamente la sussistenza, e quindi la felicità di tutto il Pubblico, non e stata poco tra noi accresciuta dagli Albanesi, tra i quali tanto più si moltiplicano li matrimoni, quanto meno ha luogo la smoderatezza del lusso, li libertinaggio della moda, ed il diritto privativo alla primogenitura".
Questa consapevolezza di essere una minoranza etnica, con una propria cultura, proprie tradizioni, con un proprio rito, inseritasi in un ambiente sociale, economico e storico diverso, accompagnerà sempre le popolazioni albanesi della Calabria, le quali. come s'e visto, pur essendo vittime della violenza feudale, non vi si acquietarono, ma facevano di tutto per uscirne il più possibile indenni, rivendicando un trattamento conforme alla loro dignità di uomini liberi, che avevano accettato liberamente, "per convenzione", il "patrocinio dell'Abbadia di S. Adriano", le cui rendite avevano grandemente aumentato col loro lavoro di contadini, pastori, allevatori di animali, bachicultori e con svariate altre intraprese.
Dagli atti di violenza, consumati dal Siscara, che sconvolgevano e turbavano profondamente le relazioni tra gli Albanesi e la Badìa, viene progressivamente ergendosi come un diaframma tra il feudatario ecclesiastico e le popolazioni albanesi, nel feudo, le quali man mano che facevano l'esperienza quotidiana della intricata struttura feudale acquistavano vieppiù coscienza della necessità di abbatterla; si veniva, così, di fatto formando un fronte antifeudale con basi di massa, che, in prosieguo, si dimostrerà molto attivo ed alimenterà uno spirito di ribellione, di insofferenza e di intolleranza per le ingiustizie in genere che, in mutate situazioni storiche, porterà le popolazioni albanesi all'avanguardia nei movimenti di occupazione delle terre, demaniali e non, e, durante le lotte risorgimentali in Calabria, farà di esse l'ala portante del movimento radicale e "comunisteggiante".
Ulteriori modifiche vengono apportate dal Commendatario cardinale Brancaccio, in data 30 gennaio 1644, ai capitoli del Siscara. Le richieste degli Albanesi tendono soprattutto a regolarizzare e render più equi e meno pesanti i loro rapporti patrimoniali con la Badìa; in alcune richieste furono accontentati, in altre, invece, continuarono ad avere vigore le statuizioni, imposte dal Siscara.
Per il casalinaggio, ottengono di pagare un "tarì per loco", ma per il pagamento della decima sugli animali e sulle granaglie, per la corresponsione del terratico, per il regolamento dei pascoli, salvo lievi modifiche, la situazione rimane sostanzialmente quella stabilita dal Siscara.
Così, per esempio, il cardinale Brancaccio non annulla l'obbligo da parte degli Albanesi di pulire le stalle del monastero; ad esplicita istanza ("domandano grazia che non siano astretti ad acconciare le stalle del Monastero"), l'abate commendatario non appone il suo "placet", ma scrive, invece, "n'informi se n'ha bisogno".
Una delle petizioni metteva in evidenza il caotico intreccio fra la giurisdizione della Corte Abbadiale e quella Criminale con la conseguenza che il "povero vassallo", per lo stesso fatto, era costretto a subire una doppia pena; gli Albanesi chiedevano che "mentre vi è lite fra la Corte Abbadiale e quella Criminale intorno alli delitti e loro cognizione, non 'essendosi ancora deciso quali spettano all'Abbadia e quali alla Corte Criminale, che occorrendo alcuna cosa o delitto del quale fosse esposta querela al Criminale, che il querelante non sia molestato dalla Corte Abbadiale da usurpata jurisdizione; e similmente che in quelli delitti quali l' Abbadia pretende spettare alla Corte sua e per caggione d'essi si trovasse il delinquente et accusato nelli Carceri Criminali, che li Officiali dell' Abbadia all'hora vedano di difendere le loro ragioni e cause, e farsi dare il carcerato; e che non aspetti che sia conosciuto e transatto, e liberato dalla Corte Criminale, e poi carcerarlo di nuovo l'Officiali dell' Abbadia e farli
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un'altra transazione, perchè il povero Vassallo viene ad esser castigato due volte e morto da due cortelli" ,
Gli Ufficiali della Badìa esigevano diritti "oltra modo, facendo ogni Capitano un novo stile"; gli Albanesi protestano contro simili soperchierie, chiedendo il ripristino della legalità, così come chiedono che per 1'uso dei mulini si paghino cinque carlini e non cinque ducati; censo quest'ultimo introdotto "forzatamente" da don Indaco Siscara "con mettere carcerati li Padroni delli Molini".
Il cardinale Brancaccio approva le istanze che ritiene giuste, ma per molte altre, non sapendo come regolarsi chiede lumi all'Arcivescovo di Rossano, al quale, in una lettera, espone che sono ricorsi a lui, per mezzo di due loro compatrioti, "codesti vassalli della mia Abbadia di S. Adriano, desiderando alcune concessioni e confirmazioni di grazie già ottenute da Monsignor D. Indaco Siscara, supponendo, che dai miei Affittatorj vengono contro quelle aggravati, molte di dette domande e grazie mostrano parer giuste, e da osservarsene, come ho fatto. Da altre non essendo informato nè sapendo se devono e possono concedersi, ho presso volentieri confidenza della Sua esperienza e dottrina, pregandola a volermene dare informazione"… siccome io desidero consolare questi poveretti, alli quali compatisco sommamente".
Con la stessa lettera il Brancaccio chiede lumi all'Arcivescovo di Rossano su come deve regolarsi per aiutare i suoi vassalli di S. Adriano, che "vogliono vivere nel Rito greco", in modo da poter garantire "perchè vi sia chi possa fruttar la Mensa"; "insomma - prosegue il Brancaccio - credo che in codesto Seminario vi sia Maestro di lingua Greca, mentre nella Provincia vi sono tanti luoghi dell'istesso Rito, perchè sibbene questa deve essere cura di Monsignor mio Arcivescovo, mentre egli governa il spirituale, nondimeno la carità che ho verso li miei sudditi sveglia anche me a pensarci".
La relazione dell' Arcivescovo di Rossano è molto interessante perchè evidenzia chiaramente quali erano i rapporti reali tra le popolazioni albanesi e la Badìa prima del Siscara e la violenza, esercitata da quest'ultimo nell'imporne dei nuovi, più restrittivi, contro l' "antico solito di detti Casali",
Una circostanza veramente importante, messa in luce dall'Arcivescovo, è che, nell'ambito del feudo e fuori, "1'Albanesi hanno sempre vissuto liberarnente"; proprio per questa liberta fin'allora goduta le pretese del Siscara dovevano sembrare enormi e altamente oppressive. Gli Albanesi non avevano mai conosciuto restrizioni di sorta nel seminate anche fuori del territorio del feudo e questo perchè le terre del monastero non erano sufficienti ai loro bisogni "di modo tale che l' Albanesi di detti Casali per un palmo di territorio si sono ammazzati e feriti, come si può vedere dal1'informazioni e Processi nella Corte Criminale di detti luoghi e nella Corte Civile; e per ogni anno - soggiunge l' Arcivescovo - si vede che sono più le querele che donano per levare 1'uno all'altro le terre che non è il numero dei Cittadini".
La "scarsezza del territorio "spingeva gli Albanesi alla ricerca di nuove terre da coltivare e questo fatto non era per niente pregiudizievole agli interessi del monastero; anzi, secondo le informazioni dell'Arcivescovo, le popolazioni albanesi erano tanto legate alla Badìa che aiutarono il Siscara nelle liti "con quelli di Terranova e con altri" occupatori abusivi di alcune terre Badìali per "farcelo relasciare a beneficio di detta Abbadia"; il Siscara fu aiutato in modo consistente "non solo coll'arme alle mani e colla morte, e maltrattamenti di più Cittadini, che si trattava di contendere con un principe, ma con ducati quattrocento, quali furono pagati per detta causa d'aggiunto e diffensione di detta Abbadia".
Secondo i "capitoli", dettati dal Siscara, i quattrocento ducati 'erano dovuti per il fatto che gli Albanesi avevano seminato "fuori lo Territorio della Chiesa di S, Adriano"; circostanza non vera in quanto, nella redazione dell'atto notarile, il Siscara aveva avuto buon gioco nell'ingannare "li Albanesi idioti".
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Dalla relazione dell'Arcivescovo la figura morale dell'abate commendatario don Indaco Siscara esce abbastanza malconcia, quella di un uomo prepotenite, sleale e fedigrafo.
Inizialmente il territorio Badiale era interamente posseduto dagli Albanesi "in decima", cioè, con l'obbligo di corrispondere al monastero la decima parte del prodotto; successivamente, venne mutata la consuetudine e, all'epoca della relazione dell'Arcivescovo di Rossano, la Badìa era in "possessione pacifica d'esiggere il terraggio in una parte del territorio ed in un'altra parte la decima"; per le terre decimali era riconosciuta la facoltà agli Albanesi di poterle trasformare in vigneti od altre colture; "con pagare un carlino per tumolo di censo".
Gli atti di vendita non erano sottoposti ad altro vincolo che al pagamento della decima parte del prezzo a favore della Badìa, da cui erano esentati gli atti di "alienazione che non ci interviene prezzo, come donazioni, commutazioni, dactioni in dote o altro atto simile"; il trasferimento di beni immobili, posseduti nel territorio Badiale, poteva avvenire, senza impedimento alcuno, sia tra gli stessi vassalli sia tra questi e forestieri, sia tra residenti che tra non residenti nell'ambito del feudo, "a toto libera volontà".
Il commercio era sottoposto al pagamento di un "onorario" alla Badìa, da cui era esentato quello non professionale dei cittadini che vendevano "nelle proprie case, vino, carne, cascio o altre robbe".
La succesione mortis causa era regolata dalle leggi comuni e, cioè, "che morendo ex testamento legitimo facto, succedono l'eredi in quello scritti; e morendo ab intestato succedono quelli che sono chiamati dalla legge, cosi in vassallaggio come extra nell'uno e nel'altro caso; e mancando nell'uno e nell'altro eredi, dove viene chiamato il fisco alla successione, succede detta Abbadia".
In una delle istanze al cardinale Brancaccio è scritto: "domandano che l'Italiani non possano stare in detti C,'tsali unitamente con l' Albanesi, e quelli che si trovano li possano cacciare via, stante che non possono campare unitamente con Italiani per molte cause" e l'abate commendatario provvedeva nel modo seguente: "se li f,acci intendere prima e non uscendo li caccino".
La motivazione di tale richiesta apparentemente fa pensare a contrasti tra gli Albanesi e le popolazioni indigene limitrofe; contrasti che, al declinare della prima metà del secolo XVII, non potevano essere tanto acuti da legittimare la cacciata degli Italiani, che si trovavano nella comunità e ciò perchè, pur avendo quest'ultima una propria identim etnica, culturale e linguistica, non era, poi, chiusa in se stessa, ma aveva continui rapporti con le circostanti popolazioni indigene, in particolare modo, attraverso gli scambi commerciali.
Nei primi tempi del loro insediamento, gli Albanesi avevano avuto relIazioni burrascose con le popolazioni locali, dovute al fatto che, sprovviste di tutto e quindi, di tutto bisognevoli, erano necessitati ad uscire dai confini del feudo per sopperire molte volte alle esigenze più elementari del vivere quotidiano, scontrandosi con gli opposti interessi di altre comunità col ricorrere al furto, alle scorrerie ed ai danneggiamenti.
Un esempio di tali contrasti lo troviamo nello Statuto dell'Università di Acri (1492-1535), nel quale e contenuto un ricorso, indirizzato dai cittadini acresi contro gli Albanesi di S. Demetrio, Macchia, S. Cosmo e Vaccarizzo, ad Alfonso II d'Aragona, al quale si chiede che "Li Albanisi de li Casali de Sancto Adriano habitanti in lo territorio di dicta università di Acri se costringano avanti 1o offitiali di dicta università qui pro tempore fuerit secondo è stato solito per lo passato. Considerato che per non si costringer di presenti innanti lo offitiali di dicta università omni dìi fano milli furti
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et delicti, et maxime chi per non esserne constricti avanti dicto offitiali di presente damnificano et tagliano tutta la montagna di dicta università et arbori fructanti in grave damno et preiudicio... di dicta università".
Secondo Vincenzo Pagano, anche Cosenza ed i suoi casali supplicavano Ugo di Moncada, luogotenente e governatore di Calabria, che "Albanesi, Greci e Schiavoni, i quali abitavano i borghi, casali e luoghi aperti e commettevano ladroneggi, entrassero ad abitare dentro le terre murate. La petizione fu trovata giusta e come tale fu accolta e provveduta".
A determinate questa generale avversione dell'opinione pubblica contro gli Albanesi di Calabria concorsero non poco i vescovi latini delle diocesi di Anglona-Tursi, Bisignano, Cosenza e Rossano, sotto le cui giurisdizioni ricadevano le comunità albanesi che, non praticando il rito latino, ma quello greco-bizantino, non erano tenute a corrispondere emolumenti agli ordinari diocesani latini; da qui il tentativo dei vescovi latini e dei loro procuratori di introdurre, anche con la forza, la pratica del rito latino nelle comunità albanesi e la contraria reazione di queste che naturalmente avevano fondate ragioni - e di ordine religioso e di ordine politico - di respingere decisamente ogni inframettenza negli affari interni dei paesi; intromissioni certamente dannose non foss'altro perchè imponevano il riconoscimento di un altro padrone - quello religioso, non meno esoso del feudatario.
Nel corso del '500 e anche dopo, i vescovi latini ed i loro procuratori, come è messo bene in evidenza nella citata "Risposta di Filatete", dipingevano, nelle loro relazioni alla Santa Sede, con "neri colori" gli Albanesi, che erano anche trattati "per nemici dell'autorità del Papa, quandochè il contrario costava e dalle prove di rispetto e d'obbedienza verso la S. Sede... Gli si rimproverava che negavano il Purgatorio, quando li Greci, e molto meno gli Albanesi non aveano mai dubitato di questa verità, che però esprimevano con altro vocabolo. Gli si imputava a delitto l'Eucarestia, che somministravano ai fanciulli dopo battezzati, mentre praticavano un rito comune nei primi tempi della Chiesa. Erano tacciati, perchè non s'uniformavano ai digiuni ed alle feste della Chiesa latina, come se non bastassero le feste, e li digiuni della Chiesa greca, che sono maggiori di numero, più antichi di tempo, e più duri d'osservanza".
Lo scopo dei vescovi latini era quello di distruggere il rito greco, non per il semplice gusto di distruggerlo, e di sostituirvi quello latino, ma col fine preciso di assoggettare le popolazioni albanesi, nient'affatto inclini all'accettazione di un nuovo padrone e, del resto, gelose custodi della loro identita culturale, etnica e linguistica.
I vescovi latini - si sostiene nella documentata e magnifica "Risposta di Filatete" - "perchè ignoranti del rito greco non poteano fare da maestri sopra quelli che lo professavano, o per la voglia di assoggettarli interamente alla loro dipendenza, trovarono sempre qualche pretesto di zelo per iscreditarli, ed infamarli ora presso li Sovrani, ed ora presso la S. Sede. Li preti latini che pian piano s'introdussero nelle popolazioni albanesi, avidi di entrare in parte negli emolumenti della Chiesa, non lasciavano di prestare mano alla favorevole disposizione, che trovavano dal canto degli Ordinari. Li Baroni anche delle rispettive Colonie per l'avversione che aveano dei privilegi dei Coronei, e dell'esenzioni, che godevano allora i sacerdoti albanesi assieme coi figli, e mogli, non mancavano di concorrere alla persecuzione del rito greco".
L'arcivescovo di Rossano, per esempio, non lasciò nulla d'intentato per latinizzare le chiese e le badie greche del paesi albanesi; se riuscì il tentativo di sopprimere con la forza il rito greco a Spezzano Albanese, non avvenne altrettanto a S. Demetrio e a S. Giorgio, dove sia la popolazione che il clero ricorsero anche alle armi, pur di impedire che accanto alla pisside greca si mettesse quella latina col pane azimo; a S. Cosmo e Vaccarizzo, accanto al rito greco, si introdusse il rito latino, mentre in S. Demetrio e in S. Giorgio, il rito latino non riuscì ad avere mai rappresentanza ufficiale.
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La provocatoria intolleranza degli ordinari diocesani latini era giunta a tal punto the lo stesso pontefice Leone X, nella bolla del 1521, riconoscendo che gli "Ordinari… latini... quotidie molestant, perturbant et inquietant" le popolazioni albanesi, si sentì in dovere di minacciare pene canoniche contra i vescovi perturbatori e seminatori di zizzania. La stessa bolla fu confermata da Paolo III 1'8 matzo del 1540; già precedentemente, lo stesso pontefice, il 26 gennaio 1536, era stato costrletto ad emanare altra bolla a favore del rito greco "per reprimere 1'ardire di quelli, che ad onta delle Leggi dei suoi Predecessori non lasciavano d'imbarazzare la pace degli Albanesi Calabri e Siculi"; e, final mente, sempre lo stesso pontefice, dovette nuovamente intervenire, con un Breve del 20 luglio 1545, "per mettere al dovere principalmente gli ordinari latini, che erano la principale cagione delle scissure e dei malcontenti".
Non è da escludere che questa generale situazione di ostilità nei confronti degli Albanesi, alimentata particolarmente dai vescovi latini, oltre a concorrere a creare la leggenda ed il mito del "brigante albanese", non abbia, altresì, contribuito ad invogliare le autorità costituite ad emanare provvedimenti restrittivi e limitativi della già limitata libertà di cui godevano le popolazioni albanesi, come, per esempio, quel decreto emanato il 20 luglio 1564 dal vicerè di Napoli, Don Parafan di Ribera duca di Alcalà, in forza del quale, sul presupposto dei "maggiori danni che son fatti e si fanno in tutte queste Provintie e per tutto il Regno son causa gli Albanesi che rubbano indifferentemente e fanno altri delitti", si disponeva che "nisciuno Albanese possa andare a cavallo con selle, briglie, sproni e staffe, nè the tengano nè portino nisciuna sorte d'armi sotto pena di cinque anni di galera".
Ma, dopo circa due secoli dal loco insediamento nel feudo di S. Adriano, cioè al tempo delle modifiche, apportate dal cardinale Brancaccio alle "Capitolazioni" di S. Demetrio, non si può ragionevolmente credere che i rapporti tra gli Albanesi e le popolazioni indigene fossero cosìl acuti e tesi come parrebbe dover arguire dalla richiesta, fatta al commendatario, di potere "cacciare" gli "Italiani" da S. Demetrio, "stante che non possano campare unitamente per molte cause".
Oltre quarant'anni prima della petizione suddetta, in S. Demetrio, s'era avviato un processo di integrazione tra la popolazione indigena e quella sopravvenuta se è vero che, sin dagli inizi del '600 è possibile riscontrare, accanto a cognomi albanesi, come Archiopolo, Belluscio, Braile, Matranga, Lopes, Rada, Stamati ecc., anche cognomi sicuramente italiani o calabresi, come per esempio, D'Amico. D'Ambrosio, Brunetto, Marini, Prezzo, Salimbene, ed altri; fatto che dimostra abbondanternlente che le due popolazioni coesistevano pacificamente.
Il Rodotà, inoltre, nella sua "Storia del Rito Greco in Italia", ha dimostrato che, nel 1605, nove famiglie calabresi di Scigliano, scappate da questo paese per sfuggire ad una faida, vennero accettate in S. Demetrio, dove, per un certo tempo, fu loro consentito di praticare anche il rito latino.
Relativamente alla seconda metà del XVII secolo, secondo i risultati dell'indagine svolta, a tal proposito, da Francesco Capalbo sul libri parrocchiali della Chiesa di S. Demetrio, nel periodo tra il 1642 ed il 1699, molte dovettero essere, in S. Demetrio, le persone di origine non albanese; infatti, per detto periodo, figurano tra i morti, diverse persone di origine italiana specificata (Fuscaldo, Scigliano, Acri, Rossano, Palermo, Bisignano ecc.) e molte altre ancora, i cui cognomi sono sicuramente italiani, come Prezzo, Macrì, Saracino. D'Amico, Cassiano, Adimari, Brunetto, Curcio, Tarantina, Trentacapilli, Pangaro, Marini, Greco, Salimbene, Altiero, De Lorenzo ecc. ecc.
Dal libro dei nati, per il periodo tra il 1670 ed il 1679, risultano diversi cognomi italiani di uomini (Tramonte, Lupinazzo, di Paula, Ligori, Volpe, Longo, Talarico, Magnocavallo, Ponte, ecc.) e di donne (Caruso, Adimari, Capocasale, la Croce, Rizzuto, Gradilone ecc.); figurano, poi, anche come padrini nei battesimi altre persone
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di Acri, Terranova, Cosenza, Paola, Cassano, e di altre località, lontane e vicine, della Calabria. Tutto questo dimostra che sia coi paesi vicini (Acri, Terranova Bisignano) sia con paesi relativamente lontani (Paola, Cosenza, Cassano), la comunità di S. Demetrio aveva innumerevoli rapporti non solo commerciali, per lo scambio di derrate, ma molto più intensi ed amichevoli a causa di comparatici e di matrimonio.
Esattamente osserva il Capalbo che non si "deve giudicare esigua la quantità dei citati elementi italiani infiltratisi nella terra di S. Demetrio: anzi essi sono rilevantissimi, in rapporto alla popolazione, la quale di quel tempo doveva essere molto scarsa, se si consideri che, circa un secolo dopo, e propriamente nel 1786, ascendeva ad anime 1394, compresi venticinque tra preti e monaci, e nel 1789 ad anime 1383, compreso lo stesso numero di religiosi, i quali erano italiani quasi tutti".
come dev'essere allora interpretata la richiesta di "cacciare" gli elementi calabresi da S. Demetrio?
Una plausibile spiegazione potrebbe essere data dal fatto che gli Albanesi, resi edotti dall'esperienza del passato e dall'atteggiamento, ancora moderatamente intollerante dell'ordinario diocesano di Rossano, per evitare di venire a trovarsi in minoranza nella loro stessa comunità e anche per misure preventive di sicurezza contro persone moleste e perturbatrici della pubblica quiete, ritenevano necessaria che fosse loro accordata la facoltà di espellere dal paese tutte quelle persone che, diverse per lingua, culto religioso e tradizioni popolari, più realisticamente avrebbero potuto introdurre, nell'ambito della comunità, elementi di turbamento o di molestia.
Che si trattasse di una misura preventiva di sicurezza e non di razzismo alla rovescia è dimostrato dal fatto che, allo stesso cardinale Brancaccio, la comunità di S. Demetrio chiedeva anche la facoltà di potere espellere, "come malfattore", "alcun Albanese tristo" ("si degni concederli grazia, che se in detti Casali succedesse alcun Albanese tristo, il quale rubasse e inquietasse li detti Casali, che ad istanza della Università si possa cacciare come malfattore").
La stessa richiesta avevano rivolto più di un secolo prima ed erano stati esauditi, gli Albanesi di S. Sofia al principe di Bisignano, Pietrantonio Sanseverino ("supplicavano che in detto casale non si numerino per cittadini di nazione Italiana, od altra ad abitare in detto Casale, ma gli Albanesi forestieri sotto loro parere di quattro principali di detto Casale, attesochè non conoscono i buoni e i tristi").
Tra gli Albanesi e le popolazioni indigene, dopo un primo periodo di reciproca diffidenza e di contrasti, non tardarono a stabilirsi rapporti anche di huon vicinato a cagione di comparatici, matrimoni, parentele e scambi di derrate alimentari ed altri e vari innumerevoli rapporti commerciali.
La fiera di S. Bartolomeo, successivamente chiamata di S. Adriano, che si teneva nel periodo 24-26 agosto di ogni anno, nello spiazzale antistante al monastero, era l'occasione solenne, ufficiale, per gli scambi commerciali; essa - "antichissima e regia" - si svolgeva sotto il patronato della Università di Acri, il cui vessillo sventolava dalle mura del monastero; nella stessa fiera, ad anni alterni, il mastrogiurato di S. Demetrio e quello di Acri amministravano una spicciola e salomonica giustizia.
La consegna del "vexillum" al maestrogiurato di S. Demetrio, delegato dall' Abate-barone, avveniva in forma protocollare, dovendosi egli recare, con seguito di armigeri, in Acri, dove i rappresentanti dell'Università gli consegnavano la bandiera "con le necessarie cautele; ad obbligo di restituirla in mano delli medesimi"; successivamente "ricevutasi l'insegna suddetta, si mette a cavallo assieme con la sua comittiva (?), ed accompagnamento di molte persone, ed armizzari della medesima Terra di S. Demetrio, "e si conferisce, con tutto tal seguito il giorno di ventiquattro, nella fleta, ove gionti (?), inalbora la medesima Bandiera, nell'arco di Fabbrica, ch'esiste al piede del predetto Monte Santo".
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Sottoposte alla signoria feudale lo erano sia le popolazioni albanesi che quelle indigene, ma con minore intensità le prime; ciò perchè, per quest'ultime, l'infeudazione era avvenuta piuttosto per libera scelta ed in virtù del principio, chiamato dai giuristi del tempo, "potestas coadunandi ed affidandi", che riconosceva ai feudatari la facoltà di "far popolo", di prendere, cioè, sotto la sua protezione, uomini liberi, che andavano ad abitare le sue terre ed erano, per questo, chiamati "affidati" o "commendati". Mentre, dunque, le popolazioni calabresi, in genere, erano costrette a subire il sistema feudale, progressivamente affermatosi con la forza in quanto il signore feudale e padrone assoluto dei paesi, delle città, delle terre, delle acque, dei fiumi ed, insieme, delle persone, essendo la proprietà feudale strettamente unita soprattutto al possesso del suolo, per gli Albanesi la situazione era ben diversa: essi non avevano terre, nè pubbliche nè private, che avrebbero potuto essere loro conquistate e non avrebbero potuto, per conseguenza, subire un processo di infeudazione, simile a quello delle popolazioni locali; essi erano uomini liberi, che si erano "affidati" ai baroni laici o ecclesiastici, i quali erano anche interessati ad accoglierli per ripopolare le loro terre, i loro borghi o casali, vuoti o semivuoti a causa di pestilenze, carestie e terremoti.
"Ne questo modo di costituire la feudalità - annota Guglielmo Tocci - era un'eccezione per gli Albanesi od un caso isolato, ma, come dice il Winspeare, era frequente nel Mezzogiorno d'Italia, dove per essere diventato il teatro delle uccisioni, depredazioni, e violenze, non restava migliore partito per i deboli che di "commendarsi", come si diceva allora, ai potenti. E sarebbe - soggiunge il Tocci - tema di studio importante per la nostra storia municipale, quello di vedere in quali dei nostri Comuni la feudalità si impose per diritto di conquista, e dove come reggimento voluto dalle popolazioni; e la differenza che risulta da questa diversa origine nel modo di go)verno, nella misura e qualità delle prestazioni e dei servizi dovuti al Barone; ed in generale, nel modo come pesava diversamente la feudalità sulle popolazioni rispettive soggette".
Se si tiene conto della diversa origine della feudalità, si capisce anche perchè gli oneri feudali, imposti agli Albanesi, come si rileva dalla convenzione con l' Archimandrita di S. Adriano del 1471, erano molto più lievi di quelli ai quali era, per esempio, sottoposta la limitrofa popolazione acrese; mentre gli Albanesi erano soggetti soltanto a prestazioni reali per cui potevano essere considerati più fortunati ed appartenenti a quella categoria di vassalli "solvendis tedditibus annuisque pensionibus obnoxili", la popolazione acrese, soggetta a quel "principe illustrissimo", era tenuta non solo alle prestazioni reali, dovute "jure tenimenti", ma anche a prestazioni di carattere personale ed era, quindi, nella condizione di quei vassalli detti "angarli", "qui non reddunt nisi servitia".
Con l'andar del tempo, come già si e visto, la condizione degli Albanesi, insediatisi nelle terre del feudo di S. Adriano, era peggiorata; ciò nonostante, però, nel territorio della Badìa, essi avevano progressivamente acquistato degli usi, che consistevano essenzialmente nel diritto di pascolare e legnare senza pagamento alcuno, in quello di seminare, scegliendo la terra più adatta e corrispondendo il "terraggio"; altri usi erano quelli di cavare pietre, fabbricare case, "pagliara" o tuguri.
Da questi usi nasceva, per "facta concludentia", il contratto di colonìa, in forza del quale gli Albanesi coltivavano, migliorandole, le terre, erano tenuti a corrispondere alla Badìa una annua prestazione in natura, ma non potevano essere privati del possesso dei quozienti di terreno coltivati; simili contratti enfiteutici e una concomitante, assidua azione usurpatrice da parte di persone più intraprendenti, disposte a lottare anche a mano armata contro i guardiani della Badìa, in prosieguo di tempo, hanno dato origine alla privata proprietà feudale.
Per le terre prese a coltivare e migliorare, il Principe di Bisignano, dai cittadini di Vaccarizzo, e la Badìa di S. Adriano, dai cittadini di S. Demetrio, Macchia e S. Cosmo, esigevano, ogni anno, centinaia di ducati a titolo di censo; di fatto, quindi, il
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feudo era stato sminuzzato in tante piccole, grandi e medie partite, per cui la stessa esazione delle prestazioni si rendeva estremamente difficoltosa, finendo, col tempo, per cadere in prescrizione; accadde anche che, per circa mezzo secolo, nè il Principe di Bisignano nè la Badìa di S. Adriano, proprio forse a causa della esazione del censo, misero in atto alcun tentativo per fare rivivere i loro diritti feudali; la ovvia conseguenza fu che quelle terre, che erano le più fertili, furono di fatto considerate come proprietà privata, libera da pesi e da vincoli. Non è da pensare che a tale profonda trasformazione della struttura feudale si sia giunti con mezzi pacifici e per forza di case, perchè i vassalli, a cominciare dal '600, sostennero "lotte strepitose" contra l'Abate-barone; da una memoria difensiva di Alessandro Marini si apprende che, per esempio, i cittadini di S. Demetrio convennero in giudizio la Badìa di S. Adriano davanti al S. R. Consiglio perchè fosse loro riconosciuto il diritto di coltivare anche terreni, siti fuori del feudo ecclesiastico; lite, risoltasi con una transazione, nella quale era riconosciuta agli Albanesi la facoltà di coltivare altri terreni oltre quelli Badiali, ma che li obbligava anche al pagamento, a titolo di risarcimento, di alcune migliaia di ducati a favore dell' Abate commendatario. Dalla stessa memoria ci è fatta conoscere la disperazione collettiva della piccola comunità. "arbereshe" di S. Cosmo, la quale, per sottrarsi alle Prepotenze badiali, aveva deciso di dare fuoco ai pagliai e di ritirarsi in altra località.
I registri parrocchiali della Chiesa di S. Demetrio attestano la virulenza dei contrasti, nel corso del Seicento e del Settecento, tra i cittadini sandemetresi e la Badìa.
Il 7 settembre del 1688, Don Pietro Giovanni Grutta, affittuario della Badìa, venne fulminato "d'archibusciata senza haver potuto sopravivere un momento", vicino alla vigna della Badìa, cioè nei pressi del monastero. Poichè i monaci si affrettarono a seppellire il loro uomo nella Chiesa di S. Adriano, il parroco di S. Demetrio, Don Pietro Antonio Lopes, appartenente ad una delle famiglie più in vista del luogo, che già si distingueva per la sua incessante attività usurpatrice, colse al volo l'occasione per elevare, dinnanzi all'Ordinario diocesano di Rossano, un conflitto di giurisdizione nei confronti dei monaci, i quali, seppellendo l'ucciso nella loro chiesa, avevano violato le competenze parrocchiali. Il Delegato del Vescovo, venuto a S. Demetrio, diede ragione al Parroco e così "Li monaci - annota orgogliosamente nel registro dei morti il Lopes - sono stati costretti dishumanare il corpo del predetto e restituirmelo, dopa lo spatio di vinti giorni, che era sepelito..."
Pochi giorni dopo, lungo la via che conduceva alla Badìa, ed esattamente nelle vicinanze dell'orto di tale Nicola Pisarra, veniva ucciso "con archibusciata" Giovanni Milano, che faceva parte del corpo di guardie Badiali agli ordini del capitano Andrea Antonio Calabro; il Milano spirò qualche giorno dopo e venne seppellito "proprio nella sepulta del commune" della chiesa matrice.
C'è un crescendo di violenza. Non erano trascorsi due anni che viene assassinato, "nella via che si va al Palazzo di detta Abbadia", Giovanni Cormanno, il Capitano in persona; era il 25 maggio 1690. Il Cormanno era polacco e dodici anni prima del delitto, si era stabilito in Terranova da Sibari, dove aveva sposato una "gentildonna" della famiglia Costa; da non molti mesi aveva assunto le funzioni di Capitano della Badìa; come risulta dal registro dei nati dell'anno 1679, era legato da comparatici con famiglie di S. Demetrio per avere fatto da padrino, più volte, a loro figli: una prima volta a Benedetto Braile, figlio di Tiberio e Sofia Ligori; una seconda volta a Francesco Rada, figlio di Francesco e Domenica Pisarra; una terza volta a Francesco Ignazio Marino, figlio di Giovanni e Adriana Rada.
Questi battesimi erano, però, avvenuti prima che il polacco assumesse l'incarico di capitano e non è da escludere che gli Albanesi, avendo saputo che il Cormanno era stato officiato per l'importante incarico, abbiano fatto di tutto per legarsi a lui
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con vincoli di amicizia; ma, evidentemente, l'esercizio della giurisdizione civile e mista, della quale egli era investito, come capitano, dovette suscitare il malcontento e la sanguinosa reazione; molto triste fu la sua fine perchè "non morì subbito, ma visse dui giorni... non si e possuto comunicare perchè non poteva inghiottire mentre havea tagliata la lingua" l'arciprete Don Pietro Antonio Lopes ne seppelli il corpo nella sepoltura comune della Chiesa di S. Demetrio.
Per un ventennio circa, non ci furono altri tragici fatti di sangue, forse perchè il capitano e le guardie della Badìa chiudevano un occhio sulle usurpazioni e sugli sconfinamenti, che certamente avvenivano; solo che mentre era agevole e senza pericoli ricorrere alla maniera forte contra i deboli, contra coloro, cioè, non legati ai clan dei Lopes, dei Chinigo, dei Tocci o di altre famiglie, che incominciavano a. costituire il nucleo di una potente borghesia rurale, era sicuramente rischioso e difficile reprimere le pretese antifeudali di gruppi di famiglie, che, assicuratisi consistenti appezzamenti di terreni, li difendevano ricorrendo a tutti i mezzi. Furono proprio questi gruppi di famiglie che, con la loro decisa opposizione al feudatario, crearono un fronte antifeudale, in S. Cosmo, Macchia e S. Demetrio, con basi di rnassa; ciò perchè piccoli e medi censuari o usurpatori e, ancor più quelli che aspiravano ad avere un qualche fondicciuolo da coltivare, obiettivamente, per raggiungere i loro scopi, cioè, rnantenere il possesso dei loro terreni o per allargarne i confini o per conquistarne una qualsiasi quota, dovevano fare causa comune con chi sapeva imporre le ragioni della forza; in questa maniera, il feudatario si veniva a trovare isolato, circondato da ogni parte di nemici e la Badìa non era più agli occhi degli Albanesi la madre benigna, che, nel 1471, li aveva accolti "pariter filios", ma era diventata simbolo del- l'oppressione feudale, una piccola Bastiglia da espugnare e distruggere a tutti i costi.
Fu una lotta, combattuta giorno dopo giorno sul vasto fronte dell'immenso territorio Badiale, con la furbizia, con le armi e con ogni mezzo; qualche volta, come nel novembre del 1712, ci lasciava le penne qualche vittima illustre, come Vincenzo Lopes, di anni venticinque, arrestato e detenuto nel carcere di S. Adriano e che "havendo posto fuoco nelle cancello per fuggire si trovò la mattina che non poteva parlare suffocato dal fumo"; per questo - annota il parroco Don Demetrio Chiodi - non poterono neppure essergli somministrati i sacramenti, salvo quello dell'Estrema Unzione e l'assoluzione in articulo mortis da parte del Priore del monastero basiliano.
Nel 1743, per decreto del papa Benedetto XIV, l'amministrazione ed il pieno godimento del beneficio venivano tolte all'abate commendatario e date alla comunità monastica; da tale data, la guardia alle terre del feudo ed il controllo sulle semine e sui raccolti si allentano, le fortune economiche di poche famiglie aumentano ed i1 fronte antifeudale viene gradualmente prendendo più forza e consistenza; ormai, non solo per la comunità albanese, sorta nelle terre del feudo di S. Adriano, rna per quella costituitasi anche in altri feudi, posti al di là del Crati, inomincia un nuovo capitolo della sua vita culturale e politica che, per una sorta di ironia della storia, avrà come asse portante lo stesso monastero basiliano, trasformato in Collegio italo-greco.
NOTE
Sulla immigrazione albanese in Italia, cfr. G. De' Rada, Sulla venuta degli Albanesi in Italia, in Rivista Calabrese. Catanzaro. 1893; Cortese N., Albanesi d'Italia, in Encic1opedia italiana Treccani, 1929; Gabrieli G., Gli Italo-greci e le loro colonie. in Studi Bizantini. Roma, 1924; Cantù C., Storia degli italiani-albanesi d'Italia, Torino, 1876; Scura Pasquale, Gli Albanesi in Italia, Saggi e Riviste, Daelli, Milano, 1865; Gli Albanesi in Calabria e S. Basile (a cura di Franco Campilongo), Pinerolo, 1959; G. S. Vitola, Gli Albanesi nella Diocesi dei Due Mari, Fasano di Puglia, 1971; E. Tavolaro. S. Benedetto Ullano e gli Albanesi d'Italia, Grottaferrata,
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s.d.; V. Dorsa, Su gli Albanesi - Ricerche e pensieri, Napoli, 1847; F. Tajani, Albanesi in Italia, Cosenza, 1969 (ed. anastatica); Rodotà P. P., Del1'origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Vol. III, Roma 1757; Morelli T., Cenni storici sulla venuta degli Albanesi nel Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1842; Petrotta S., Albanesi di Sicilia, Palermo, 1966; Lanza D., Ancora sugli Albanesi in Calabria, in Archivio Storico Calabrese, Mileto-Catanzaro, a. III, 1915; Ambrasi D., In margine al1'immigrazione greca nel1'Italia Meridionale nei secoli XV e XVI. La comunità greca di Napoli e la sua Chiesa, in Asprenas, VLII, 1961.
Sulle condizioni politico-sociali del Mezzogiomo d'Italia al1'epoca delle immigrazioni albanesi, cfr.: Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Napoli, 1963; N. F. Faraglia, Il Comune nel1'Italia meridionale, Napoli, 1889; R. Zeno, L'ordinamento amministrativo dei Municipi Calabresi nei secoli XV e XVI, in Rivista di Diritto Pubblico e della Pubblica Amministrazione in Italia, MCMXLI, a. IV.
Sui Casali di S. Adriano e del Patire, cfr.: A. Gradilone, op. cit.; F. Capalbo, Di alcune colonie albanesi della Calabria Cirta, in Archivio Storico della Calabria, a. VI, n.ri 1-2-3-4, Mileto-Catanzaro, 1918; G. Tocci, Memorie storico-legali..., cit., e Memoria, cit...
Sul1'atreggiamento del1'Universita di Acri nei confronti degli Albanesi di S. Demetrio, Macchia e S. Cosmo, cfr. lo Statuto del1'Universita di Acri, riportato da F. Capalbo, in op. cit., sub Documenti II.
Sui rapporti tra gli Ordinari diocesani di rito latino e le comunità albanesi, cfr. P. P. Rodotà, op. cit.; alla Relazione / Di Monsignor Cardamone / Arcivescovo di Rossano / Al Delegato della Real Giurisdizione / Contra / L' Arciprete Albanese di S. Giorgio / RISPOSTA DI FILATETE, Napoli, 1796; Giovanni Laviola, Pierro Camodeca de' Coronei, Aversa, 1969; Francesco Godino, Gli Albanesi e 1a difesa del rito greco in Calabria, Cosenza, 1971.
Sul diritto statutario medioevale, cfr. C. Calisse, Storia del diritto italiano, vol. I, Firenze 1891; G. Raccioppi, Gli Statuti della Bagliva nelle antiche comunità del Napoletano, in Arqhivio Storico Province Napoletane, 1881; Freccia M., De suffeudis Baronum et investituris feudorum, Venezia, 1579; Rinaldi, Primi feudi nel1'Italia Meridionale, Napoli, 1886; Salvioli G., Storia delle leggi e del diritto nel1'Italia Meridionale, Napoli, 1910.
Sulle capitolazioni tra gli Albanesi ed i Feudatari, dr. D. Zangari, op. cit.; G. Tocci, op. cit.; G. Tocci, Gli Albanesi in Calabria, in Archivio Storico della Calabria, Mileto-Catanzaro, a. II, n.ri 3-4, 5-6 (1914); D. Lanza, op. cit..
Sulle condizioni di vita delle popolazioni albanesi, dr. Marafioti, op. cit.; G. Mazziotti, Monografia del Collegio Italo-greco di S. Adriano, Roma, 1908, Estratto da La Nazione Albanese; A. Masci, Discorso sul1'origine, costumi e stato attuale degli Albanesi nel Regno di Napoli, Napoli, 1807 (ristampato, a cura di Francesco Masci, nel 1847).
Sugli Abati-Commendatari e sul feudo di S. Adriano, dr. G. Cava, Considerazioni su alcune capitolazioni, in Zjarri, a. IV, n. I, S. Demetrio Corone, 1972; idem, I1 monastero e la Chiesa di S. Adriano, in Ziarri, n. 3, giugno 1971, S. Demetrio Corone; idem, La Giurisdizione baronale del1'Abate di S. Adriano, in Zjarri, n. 4 agosto 1971, S.DemetrioCorone; idem, La Commenda abbaziale di S. Adriano e di S. Maria de Fossis, Ziarri, a. IV, n.ri 2-3, 1972, S. Demetrio Corone; idem, I1 feudo di S. Demetrio, in Zjarri, a. IV, n. 8, 1972, S. Demetrio Carone; Idem, Sugli Abati di S. Adriano, in Zjarri, a. VLII, 1975, S. Demetrio Corone; Idem, La giustizia nelle Comunità Albanesi, in Zjarri, a. V, n. I, 1973, S. Demetrio Corone.
Sul processo di rifeudalizzazione nel Mezzogiomo d'Italia, durante il secolo XVI, dr. R. Villari, Note sulla rifeudalizzazione del Regno di Napoli alla vigilia della rivoluzione di Masaniello, in Studi Storici, IV, 1963, pp. 637-663.
Per il ricorso degli Albanesi di S. Demetrio, Macchia e S. Cosmo al cardinale Brancaccio ed al Card. Borghese, dr. G. Tocci, Gli Albanesi in Calabria, cit. .
Sul processo di integrazione, avviatosi in S. Demetrio, tra gli Albanesi e i Calabresi cfr. Capalbo, op. cit..
Sui contrasti tra l' Abate-Commendatario e gli Albanesi, cfr. G. Tocci, Memoria, Cosenza, 1898; F. Capalbo, op. cit..
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